Letteratura: La forma in “Nature”. R.W.Emerson filosofo o poeta?

 

 

Introduzione

 

 Affidati a te stesso: ogni cuore vibra a questa corda di ferro […]

R.W.Emerson (Self-Reliance)

 

Obbiettivo di questo lavoro è esaminare alcune porzioni della struttura formale del saggio Nature (1836) dello scrittore Ralph Waldo Emerson (Boston, 25 maggio 1803 – Massachusetts, 27 aprile 1882) così da rintracciarne: a) l’eventuale forma del sermone retaggio del passato di preacher o, più in generale, la connotazione orale; b) lo sforzo teso alla concretazione di una forma nuova non intesa come vestizione della realtà, bensì come essenza di cui essa stessa è simbolo, se è vero che tale forma si è offerta “a quell’elemento di fiducia, di ottimismo, che è proprio dello spirito americano e che alimenterà la sua tradizione filosofica” (Agostino Lombardo). Si concluderà mettendo sulla bilancia quegli elementi formali così contraddittori da rendere difficile una lettura dell’oscillazione, per altro “continua”, tra l’Emerson profondamente filosofo e l’Emerson slanciatamente poeta. Nel fare ciò, si terrà conto dei saggi di F.O.Matthiessen e del citato A.Lombardo, ovvero, rispettivamente, Rinascimento americano (arte ed espressione nell’età di Emerson e Whitman) e il capitolo Emerson e l’arte americana. Tuttavia, nell’andirivieni dalla denotazione di particolari passaggi nel testo alla rielaborazione dei significati che costituiranno il corpo di questo scritto, attraverso lo strumento dell’analisi e del confronto coi saggi, non ci si priverà, di tanto in tanto, della libertà di mettere da parte tali sussidi volti alla comprensione se, contestualmente, a farsi urgente sarà il sorgere dell’intuizione. Ciò detto nella convinzione che discutere di un “metodo” emersoniano individuale e condiviso, qualora esista, significhi, d’accordo con i “democratici” precetti dell’autore, tentare di sperimentarne l’uso audace, l’immediatezza e la contingenza.

 

 

 

1.      La forma-sermone. La connotazione orale di Nature

 

 «Si tratta soltanto di una lista di argomenti sui quali mi piacerebbe parlare, e più ancora sentir parlare.»[1] [2]

 

Quando Emerson vede coronato, con la stampa e la pubblicazione di Nature, il sogno di quel libro sulla natura tanto agognato da fargli annotare, ancor prima di scriverlo, di ritorno dal viaggio in Europa, «Mi piace, il mio libro sulla Natura», sente il bisogno di comunicare a Carlyle una personale ed estemporanea revisione del lavoro. Emerson rivede Nature come una “lista” di “argomenti” sui quali “parlare” e, preferibilmente, “sentir parlare”. Lo scrittore plausibilmente emenda la propria posizione nei confronti della forma in sé del testo scritto a favore della modalità orale per scongiurare quella cristallizzazione del pensiero data dalla staticità ontologica della scrittura ed effettuarne il sorpasso attraverso la concezione progressiva del Man thinking. Tale lettura è possibile, in primo luogo, alla luce del passato di predicatore di Emerson contestuale all’“appassionato amore per gli ardori dell’eloquenza” e, in secondo luogo, in considerazione del fatto che il medesimo individua come “forma vivente i sermoni per Taylor, Barrow, South e Donne”. Per chiosare sull’influenza che l’oratoria (intesa come “forma vivente” sottostante le modalità creative del letterato e del genio artistico in generale, procedenti dalle “esigenze” e dalle “realtà” di tali individui) ha nella vita di Emerson, Matthiessen afferma: “Questo amore non doveva più abbandonarlo, e la sua lusinga, sebbene assumesse poi aspetti diversi, continuò sempre a intessersi ed a mischiarsi al suo concetto dell’arte più alta.”

Nature, allora, è sicuramente il primo dei prodotti della sua arte più alta e paga in egual misura il proprio tributo all’“eloquenza da pulpito” dei discorsi di Everett e Webster, eroi adolescenziali per il sedicenne Emerson. Immaginarlo decantare la squisita prosa del proprio saggio da un pulpito non sembra, come si è visto, operazione assurda né, tantomeno, forzata. La stessa struttura e il suo sviluppo dalla Introduction, attraverso il nodo rappresentato dal capitolo Discipline e l’apertura a Idealism già osservati dal Burke, fino in fondo connotano il carattere “vivente”, progressivo, transeunte del saggio (dall’oratore, simbolo del progresso civile, all’arena, o meglio, ai “fedeli”) e la “necessarietà” del discorso di partire dal concreto delle esigenze umane anche contingenti (Commodity, il senso particolare che dà di Beauty) per spogliare progressivamente le parole di quel “vestito” che le staticizza in “forma” così da rilevarne progressivamente l’“essenza”. Si noti, qui, l’insistenza sulla forma apparente, la predilezione per l’immediato, il pratico e il diretto riassunti da una breve lista

 

[…] the most abstract truth is the most practical. Whenever a true theory appears, it twill be its own evidence. Its test is that it will explain all phenomena. Now many are thought not only unexplained but inexplicable; as language, sleep, madness, dreams, beasts, sex.[3]

 

e, altrove, il tenore musicale esaltante del discorso

 

[…] Seen in the streets of cities, how great they are! If the stars should appear one night in a thousand years how would men believe and adore; and preserve for many generations the remembrance of the city of God which has been shown! But every night come out these envoys of beauty, and light the universe with their admonishing smile.[4]

 

rintracciabile in varie occasioni. E’ il caso dell’intero IV paragrafo del II capitolo (Commodity) nel quale, dissertando sulle useful arts e ribadendo il loro andare incontro ai propositi del private poor man, Emerson si lascia andare ad una esternazione sincronica che mette Noah e Napoleone (mito e Storia) sulla stessa traiettoria evolutiva.

Lo spostamento dei pesi dall’iniziale /segno/ dei fatti naturali e dal piano fattuale ad un piano “altro” di significato trasceso viene operato misticamente proprio attraverso l’estasi tipica del discorso orale e anche dell’insorgere del genio, definito per altro dallo stesso Emerson come “un eccesso di vita”. Se la dote di trascendere al fine di rendere coscienzioso il mondo e affinché esso stesso si renda capace di leggere lo spirito nel geroglifico dell’universo è, come dice Emerson, del genio e del talento poetico, allora Emerson è, dopo Nature, un poeta. Ma questo è un altro discorso. Più vantaggioso è notare come l’arte dell’eloquenza sia inscindibile dall’intuizione emersoniana e dalla sua espressione rapsodica poiché, come afferma Matthiessen, “in qualsiasi veste egli parli, in veste di dotto o in veste di veggente” (che per Emerson è necessariamente anche “vate” in una voluta non preminenza del “percepito” sul “percepire”) “(…) la sua vera, la sua unica arte” è “quella del rapsodo”, cioè dello sfogo. A conferma di tale analisi si individui l’atto finale di Prospects, capitolo del trionfo del Oness raggiunto partendo dal concetto “terreno” del Many:

 

As when the summer comes from the south; the snow-banks melt , and the face of the earth becomes green before it, so shall the advancing spirit create its ornaments along its path, an carry with it the beauty it acts, around its way, until evil is no more seen. The kingdom of man over nature , which cometh not with observation, – a dominion such as now is beyond his dream of God, – he shall enter without more wonder than the blind man feels who is gradually restored to perfect sight.

 

 

 

2. Lo spirito vivo

 

La ricerca del Vero romantico emersoniano (prettamente “americano”, non “europeo”), che parte dalla parola-forma[5] per poi distaccarsene e puntare all’anima della materia che quella parola-forma rappresenta, sembra essere legata a doppio filo con la ricerca di una forma sostanzialmente nuova. Una forma che dia voce a quei letterati che abbiano preso piena coscienza di sé, che mirino ai contenuti anziché al mezzo espressivo, che diano libero sfogo alle Idee e alla Ragione infinita trascendendo quella stessa forma, oltrepassando se stessi (assolvendosi) e servendo da decalogo (non consolazione) per il lettore. Ecco, quindi, il punto d’incontro tra il poeta e il veggente/vate, ecco il superamento della concezione neoclassica del dilettevole letterario, da una parte, e di quelli che Emerson chiama il “Dio della tradizione” e il “Dio della retorica” dall’altra, a favore di quel Dio vero che infiamma il cuore con la sua presenza. A questo punto, la distanza tra religione e letteratura pare già notevolmente assottigliata. Anzi, il divario è stato praticamente annullato se accettiamo l’affermazione di Carlyle approvata da Emerson, riportata così da Matthiessen:

                                                                          

 «La letteratura non è che un ramo della religione, del cui carattere sempre partecipa; tuttavia al tempo nostro, essa è il solo ramo che mostri ancora un poco di verde, ed alcuni pensano che essa possa un giorno diventare tronco.»

 

La forma di un tale tipo di letteratura non può che essere evanescente, non può che contemplare la contingenza della propria performance, cioè della sua esposizione. Il risultato incredibile, in Nature, sembra essere che, dalla contraddizione tra desiderio di superamento della forma e la messa in pratica di ciò attraverso una logica formale rigida (derivante dal sermone, come detto), Emerson sia riuscito a tirar fuori qualcosa di sensato.

Questa forma nuova, piena di contraddizioni, sempre in continuo cambiamento, come in una sorta di “work in progress” pone le basi per una letteratura profondamente e coscienziosamente americana. Al suo precursore va il merito di aver “iniziato” il movimento al Man thinking, di aver indirizzato i suoi contemporanei (esclusi i morbosi che finiscono per ripiegarsi in se stessi) ad uno scopo concreto dell’arte, pur nell’indefinitezza dei suoi momenti più alti; di aver creato a tutti gli effetti un “metodo” sospinto dalla fiducia e dall’ottimismo nelle qualità umane, eppur criticato, avversato e distrutto, giacché vacillante, sul fare del secolo XX da formalisti quali Yeats e Joyce.

La materia trattata in Nature con tale “metodo” formale e contenutistico, tendente alla religione cristiana e sfumante in quel neoplatonismo delle Idee di cui il capitolo Idealism è emblema, presenta delle connotazioni ora poetiche ora filosofiche che, a causa delle limitazioni di cui soffre (e ne è consapevole) il suo autore, non giungono ad una sostanziale risoluzione. Agostino Lombardo, parlandone in generale, afferma che

 

Perché un siffatto materiale potesse essere padroneggiato, non solo, ma riorganizzato e composto nella forma d’una filosofia sistematica e originale, sarebbe stata necessaria la presenza di un filosofo, per l’appunto, originale. E tale – al pari del suo amico Carlyle – Emerson certamente non fu. Né d’altro canto mai pretese, almeno esplicitamente, di esserlo: «non sono capace», scrive, «di usare quella forma sistematica che è giudicata essenziale nel trattare della scienza dello spirito».

 

 Allo stesso modo l’Emerson di Nature (e in generale) non può essere considerato un poeta poiché il valore di ciò che scrive non concerne la sfera della creazione letteraria, bensì la sfera dello spirito, dell’anima ricercarti in quei “fatti” che “nelle sue mani paiono dissolversi e diventar privi di sostanza”.[6] Pare curiosa, invece, l’accettazione di un termine mediano da parte di Lombardo, cioè quello di “artista” sulla base di alcuni elementi ampiamente discussi nella prima parte: “l’eloquenza”, il “fascino della prosa saggistica”, la “ricchezza verbale con cui esprime il suo pensiero”.

 


[1] F.O.Mathiessen, Rinascimento americano, Einaudi 1954, p. 33.

[2] Si tratta di un frammento di discorso riferito all’amico e collega Carlyle, successivo alla stampa e alla pubblicazione di Nature.

[3] Nature, Introduction.

[4] Ivi, cap.I Nature.

[5] Come direbbe Tullio De Mauro.

[6] Da un passo del diario di Hawthorne, in Agostino Lombardo, Emerson e l’arte americana.

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